martedì 24 maggio 2011

La meraviglia dei pesci rossi

Per dimostrare la sua abilità di tiratore,
che nessuno mi sembra abbia mai messo in discussione,
un pomeriggio, al luna park, mi riportò indietro con una busta
con due pesci rossi che nuotavano eccitati e disorientati.
Una volta presa posizione in un punto luminoso e accessibile
della cucina, tra la dispensa e le pentole, girovagavano
nella grossa cuccuma di vetro che avevo scelto per loro,
curandosi di più di riorganizzarsi la vita, conoscersi meglio,
riprodursi, mangiare con soddisfazione, che degli strani esseri
che ogni giorno manovravano nervosamente oggetti
la cui funzione doveva sembrar loro quantomeno futile.

Quando le uova si schiusero decisi
che una cuccuma, seppur grande e trasaparente,
non era un luogo adatto a far crescere dei piccoli.
In una giornata di sole primaverile
rimasi un po’ seduto sul bordo prima di ritornare
e raggiungerlo nel suo passo deciso – immaginavo
lo stupore di quei pesci a cui non avevo neanche
fatto in tempo a dare un nome, nel vedersi
catapultati in una vita rinnovata, più ampia e ariosa,
dai colori scuri e mutevoli, come forse non l’avevano mai conosciuta.
Il laghetto di Villa Pamphilj non sarà il mare, va bene,
ma ha anfratti dove ripararsi, prepotenti da cui difendersi,
piante e plancton con cui cenare nei giorni di festa.
Tenni la busta trasparente a sgocciolare per un po’
racchiuso in una felicità insolita, al pensiero di come
a quella famiglia – almeno – era stata data una possibilità.

sabato 21 maggio 2011

4 Novembre

Nei miei ricordi oggi c’è sempre il sole,
l’aria è fresca e profuma di aranciata,
chiacchiere allegre e patatine che mio nonno
si infilava di nascosto nella tasca della giacca,
quella buona delle feste, la sola.
Ci sono le note di poche canzoni popolari
rimescolate per ottoni e grancassa, e i vecchi
del paese che ravvivano le solite storie, soffiandoci
sopra come si fa col fuoco, e c’è la fine della mia attesa
durata un anno che mi sembravano mille.
Come quando mio nonno mi raccontava che
la gente si abbracciava, le campane che suonavano,
e i piedi gonfi dal tanto camminare, che non lo sentivi
il dolore, tanta era la gioia di poter tornare.
Come il pianto di mia madre quando le sirene
non suonavano più per farli scendere giù,
in cantina, dove si faceva finta di essere al sicuro.
Tutte storie che ti restano dentro, come l’umidità
delle trincee, o il suono degli stukas lassù in alto.
Così vicini.

Il giorno in cui tu cesserai di respirare e maledire il mondo
uscirò per strada come facevo con tuo padre, tenendolo
per mano e lascerò che il sole mi inondi il viso, salutando
gli amici che incontro nel percorso tra casa e municipio.
Ci saranno le vecchie bandiere tirate a lucido, e le sedie
saranno state coperte da tessuti colorati e sui tavoli
abbonderanno aranciata e patatine, da mettersi in tasca
e poi bere nei bicchieri di carta e brindare facendoli tintinnare,
come se fosse sciampà, e ridere senza più pensare
che la guerra ci ha fatto male, come l’attesa, accucciati,
sperando che passasse, per tornare a vivere, in attesa
di un altro pericolo. Peggio delle bombe, e dei fucili
di tutte le persone che si credono civili e che ti tengono giù,
col fiato sospeso, a sperare nel sole.
Prenderò mio nonno e festeggeremo insieme
Festeggerò la fine di una guerra infinita
che nessuno di noi due avrebbe mai voluto
e che solo tu, solo contro tutti, ha dichiarato;
che solo tu, contro i fantasmi, continui a combattere,
senza vedere che non ci sono più nemici da affrontare,
né regole di ingaggio, né più vita da dichiarare.