giovedì 18 novembre 2010

Mi guardi, come fai sempre quando
vuoi dirmi che, soltanto una volta in più, ho sbagliato.
Non ti occupi del mio ginocchio dolorante,
della fasciatura rigida che lo costringe, della mia tristezza
nell'essere - seppure temporaneamente - invalido.

Già pensi al da farsi prossimo venturo,
alle cose che devo fare io per guarire più in fretta,
a quelle che non puoi fare tu perché io sto così;
a tutte quelle cose che ci saranno da fare
quando finalmente starò bene.
Nulla ti arriva della mia sofferenza, di quell'idea
malata che ho spesso nel fondo della mia anima
di averti deluso una volta ancora,
anche se dolore, immobilità e ginocchio sono miei.

Dici, dopo un po' che stiamo in silenzio,
che si può vivere anche coi legamenti rotti, b
asta stare attenti,
basta solo essere un po’ prudenti, non esagerare
e non pretendere troppo da se stessi -
concetti senza tempo che ricorrono come compleanni
e che come tali sto imparando lentamente a odiare.

Basta non fare percorsi accidentati, guardare
sempre dove si mettono i piedi ed evitare
di fare movimenti bruschi e non pensati; insomma,
basta rinunciare gradualmente a vivere, come hai fatto tu,
chiuso nei tuoi anni gravi e nelle tue abitudini quotidiane
cui non rinunci se non per qualche evento eccezionale.
La vita, quella di noi mortali, difficilmente riesce come un percorso netto
e se anche fosse, io, che cavallo di razza non sono mai stato,
di sicuro commetterei quell'uno o due errori
che non mi darebbero la sicurezza di passare
davanti alle tribune, testa alta, coda ondeggiante,
a ricevere l'applauso della gente.

La vita, quella di tutti i giorni, è fatta di buche
e frenate impreviste, di accelerazioni necessarie
e repentini ma inevitabili cambi di direzione,
se no si rischia di essere disarcionati troppo spesso
e troppo spesso rimanere col culo per terra.
Anche se c’è chi fa finta di stare ancora in sella
e mette la mano nella giacca
come fosse un grande condottiero

E se la vita è fatta anche di persone che volendoti accarezzare
fanno male e volendo scalciare ti rimettono in piedi,
io, nel mezzo di questo cammino, voglio avere gambe solide
come ho sempre avuto, e non essere un mezzo uomo,
con mezze gambe, su cui poter contare.

giovedì 11 novembre 2010

Lasciare, andare

per Lidia Riviello

In giorni dissestati come questi, a fatica
dal fondo della mia memoria affiora
un binocolo giocattolo che portavo con me
anche quando andavo a dormire, che a un certo punto
si ruppe.
Avevo più o meno l’età di mia figlia ora
e a quattro anni suonati è difficile accettare
che qualcosa che c’è sempre stato cessi d’assoluto di essere.
Per quel che mi riguardava potevamo anche
tenerlo così com’era, inutile alla sua funzione primaria,
lo avrei visto così come me lo aveva regalato con un sorriso
una lontana zia senza volto né più nome.
Così mio padre mi propose, non di seppellirlo,
che non avrebbe avuto aria per respirare,
ma di lasciarlo in un posto che solo noi sapevamo,
dove avrei potuto fargli visita e salutarlo ogni volta
che con la nostra 850 blu saremmo passati
a fianco del cavalcavia della Pontina, per andare
a quello che all’epoca era il nostro mare.
Era lui il mio eroe a quei tempi, e come mia figlia
ora guarda ammirata i miei tatuaggi o a come
riesco a palleggiare con tutti e due i piedi,
così mi rassicurava il fatto che capisse
la mia preoccupazione acché il binocolo trovasse
una vita diversa da quella che aveva avuto con me,
anche se da sempre per lui una cosa che non serve
si butta via.

Altre cose, altre persone avrei dovuto, mio malgrado
lasciare andare a luoghi e vite differenti, alcune
dall’oggi al niente, senza il tempo di capire
o di vederle partire, altre con lentezza impercettibile,
continuando a transitare sulla solita strada a cui
hanno cambiato il senso di marcia, finché un giorno
non ti arriva a casa una multa. Perciò realizzi.
E tra questi ci sei tu, Papà, con cui penso di parlare
senza capire che quel padre che capiva non c’è più
da molto tempo, che invece di trattenere a me
tratti sbiaditi di quell’immagine lontana, avrei dovuto
guardare la realtà, lasciarti andare ovunque tu fossi
stato intenzionato a dirigerti, come feci quel pomeriggio
con il mio cannocchiale in parte ancora buono.

Ti lascio andare adesso, prima che la vita,
più tiranna e sovrana di qualunque realtà,
lasci andare te, infine, al tuo viaggio verso quel nulla
a cui da sempre, segretamente, aneli.