mercoledì 4 novembre 2009

Lo straniero (zum zu!)

Ogni quattro novembre non posso fare a meno di vedere una piazza assolata, quella di un paese, immagini stranamente colorate dei primissimi anni '70; mio nonno immenso, secolare come una quercia, con la sua giacca della domenica, verde con motivi quadrettati marroni, le sue medaglie (che ancora conservo, anche se prima mi sembravano oro puro e ora una buona miscela di latta e orgoglio personale indiretto)attaccate al risvolto. Una piazza nel sole, la banda di ottoni che riempe l'aria di un suono inconfondibile.
Mio nonno pietro, classe 1899, spedito in Veneto a 19 anni, non mi ha mai parlato della guerra in termini eroici; i suoi ricordi comprendevano fame, povera gente, freddo e bronchite (cronica) che si prese e che lo faceva tossire di notte. Negli ultimi tempi la ringraziavo e apprezzavo in qualche modo; mi diceva che lui, nella stanzetta di casa, era ancora vivo. Lui l'ha sempre apprezzata meno.
Dai racconti che sentivo alcune sere, nell'unica osteria del paese, dove ci si portava la pagnotta col salame e ti davano da bere, la guerra veniva pitturata di grigio, di nero e di rosso, mai d'oro o splendente come spesso, troppo spesso, quasi tutti i giorni, ci viene proposta dal ministero dell'approvazione via etere. Un'azione eroica era rimediare pane e frittata da contadini clementi e comprensivi, che trattavano i soldati come i figli, che magari stavano combattendo da qualche altra parte. Una grande impresa era imboscarsi con una pischella locale e farci all'amore col sottofondo delle bombe che fioccavano. E le medaglie venivano tirate fuori il quattro novembre, per sembrare delle querce secolari e indistruttibili agli occhi di nipotini che facevano davvero ohhhh, mentre mangiavano manciate di patatine e bevevano aranciata da bicchieri di carta.
All'ora di pranzo, mentre la tv mi nutriva del companatico adatto alla mia pasta e fascioli riscaldata di due giorni fa, il ministro della potenza militare descriveva con voce rauca, melensa e lievemente commossa, il giornaliero eroismo dei "nostri" soldati, che combattono giornalmente per tenere a distanza il terrorismo dalle nostre vite. Ingurgitavo i graziosi cereali e pensavo alla faccia di pietro vaglioni, muratore, soldato semplice dal 1916 al 1918, a quella faccia rugosa e con la barba incolta che mi manca tanto, a quello che avrebbe pensato sentendo quel pupazzo di regime mandare a memoria retorichette di secondo esofago da far recitare a bambini lobotomizzati. Tutti che applaudivano, la conduttrice che inanellava improbabili facce profonde e consapevoli del momento. Il ministro che sciorinava le piazze in cui, in questi giorni, si sarebbero festeggiate le forze armate. Il grande concerto dell'ultimo artista che, da grande fustigatore del costume italiota, diviene servo belante con le sue canzonette popolari dell'italia emigrata. Il soldato semplice p.v. che guarda le cosce delle ballerine strabuzzando gli occhi dietro occhiali sempre più spessi, senza capacitarsi di come quella nuova televisione stesse cambiando tutto intorno a sé. Era tempo di andare. Non era più tempo né delle nostre passeggiate, né dei racconti di osteria, né di altro. Il quattro di novembre voglio ricordarlo così: una manciata di patatine, la banda che suona la canzone del piave, l'aranciata, la giacca buona del soldato semplice p.v., il sole nella piazza del paese. Le mie forze armate di buona volontà e cervello sempre acceso. La mia trincea puzzolente e umida che mi dice di non credere, di non comprare tutta questa plastica scadente a scatola chiusa. Chiamatemi Winston Smith, se vi pare, ora vado a dormire.

venerdì 23 ottobre 2009

17 anni, una vita, un'eternità, un battito di ciglia

Non ricordo bene come fosse il tempo, il 23 ottobre 1992; molto probabilmente c'era il sole. Una di quelle giornate ottobrine e romane che rendono impossibile o inaccettabile il pensiero di una fine. Una morte. Con il sole di roma d'ottobre puoi andare ovunque, gira' tutt'er monno. Anche morire col sorriso sulle labbra.
Non ricordo suoni, rumori, sensazioni tattili, gusti. Ho solo immagini, ben nitide, che scorrono a tratti, come quando il satellite è disturbato da un temporale. Mia madre è morta oggi, (o) 17 anni fa. I ragazzi a cui insegno ogni giorno e fino al 31 di questo mese il 1992 lo conoscono come io conosco il 1950 o il 1962, con chuck berry e i beatles, solo che non hanno nulla da ricordare, nulla che li catapulti in quell'anno di stragi di mafia e svalutazione. o forse sì; non sono ancora arrivato ad essere tanto dissociato da andare a chiedere a qualcuno se e cosa lo lega a un particolare anno: ci tengo all'immagine di sanità e intelligenza che il mondo circostante sembra avere di me.
La voce di mia madre è un suono lontano nel tempo, affondato in chilometri di ovatta - eppure penso la riconoscerei al volo per strada, oppure dall'altra parte del cavo telefonico (non mi riesce di associarla al concetto di telefono cellulare).
Stamattina andando al lavoro pensavo vedi che giornata normale, un po' schifosa visto il tempo, gli scioperi, il traffico, le cavallette (...) - pensavo che dev'essere stato il pensiero di quelli che incrociavo per la loro strada ordinaria mentre seguivo quel carro funebre scoglionato che proprio non se ne teneva di andare fino in abbruzzo, al freddo, per poi tornare col buio, il traffico. Almeno non pioveva, quel 23 ottobre 1992. Non ricordo che giorno della settimana fosse; potrei andare a gugolarlo facilmente, ma non cambierebbe l'esito delle cose. Stiamo parlando della mia memoria, non quella di gugol. Potrei gugolare tutte le cose successe in quel giorno (che non era domenica, ma forse venerdì o sabato) ma idem con patate, la cosa che ricordo e che nessuna memoria virtuale potrà cancellarmi è che la sera prima, tardi, sorretto da pochi amici, sono entrato in un ospedale della periferia scalcinata di roma nord, ho preparato un the per mia madre, lei mi ha accarezzato la fronte, salutato, e il giorno dopo non era più.
Mi chiedo se ci sia mai stata.
Mi rispondo di sì.
Ora spengo il computer, vado a prendere un po' di pioggia; senza incazzarmi con gli automobilisti, le buche, il governo, lo smog. Ecco il mio regalo per oggi. O almeno ci provo. Immagino sia questo il vantaggio ad esser vivi.
Amen.

lunedì 21 settembre 2009

andiamo, è ora, io e te -
scuoti via sogni malsani dagli occhi,
stropicciati piano i pensieri, vedi,
la luce filtra piano, i rumori ovattati
si spengono dietro i vetri. il mio respiro
ha ripreso i ritmi di un parlato dolce.
andiamo, è ora.
non prenderemo mille decisioni nello spazio
di un caffè e due biscotti, non ce ne sarà bisogno,
almeno per le prossime due ore.
strade semideserte come cortili
di scuole estive attendono di vedere
i nostri corpi avanzare, in silenzio,
quasi senza camminare. è chiaro, ora:
non potremo ritornare alle strade di sempre,
ma che importa? quale dolorosa differenza
ci costringe a guardare alla scia di paure
esse stesse insicure del loro cammino?

andiamo, è ora. io e te, la nebbia
di mille colori ci si struscia addosso
come la tua gatta al ritorno dal lavoro. non sembra
neanche reale il ritmo dei nostri baci notturni,
inspiegabile, oramai, il tempo che batte
il proprio, di tempo. l'universo sembra condensato
nella brina ai lati della strada. non cerco scuse, passeggio
al tuo fianco come mi compete; è il mio vivere, questo.
andiamo, continuiamo ad andare. io e te, non so
dirlo meglio di come te lo dico ogni notte,
prima di cedere al sonno. andiamo, è ora.
e lo sarà ancora per molto, più di un po'.
andiamo, è ora. ti prego. io e te.

venerdì 24 aprile 2009

Dopo che avrò visto questo inverno così lungo
addolcirsi in piccoli segni di colori tenui
allora saprò che anche il mio cuore
sarà sopravvissuto a quell’oscura apnea.
I piedi e le mani intirizziti dal tanto immobilismo
cominceranno a ricercare un’altra strada, meno battuta
della solita. E sarà in quel lento muoversi incerto
che una tua carezza, amore mio, un tuo timido bacio dato
fuggendo via saranno sufficienti a farmi dimenticare
tutto il buio, i giorni senz’alba, le notti insonni,
a sperare e pregare per una precoce primavera.
Basterà, pensa, un tuo sorriso e la tua mano
che cerca la mia senza guardare, a dirmi
che non avrò vissuto invano.

claremorris, april 9th, 2009

Teorema unidirezionale della solitudine

Mi è sufficiente non farmi sentire né vedere,
per non esser visto, ascoltato, da te, come da chi
mi ha sempre professato amore automatico.
Mi sottraggo al ricatto, resto aggrappato
alla vita con misurate sortite,
alla vista e all’udito. Mi allontano e non scappo.

Ricevo risposte cordiali, mi accontento
con un sorriso lento a spegnersi, finché
non affosso il viso in qualche altro
vicolo oscuro. Mi siedo. Aspetto.
Fronteggio il mio nulla assoluto.
Cedo alla tentazione, maledicendo
il mio sbrindellato orgoglio, quando le tue parole
soffiano dolce vento sul mio fuoco, io
mi sento rinascere di altre vite, differenti
possibilità, mille viscere emergono, finché
il rollio non si allenta, per fatalità
a volte, e io resto a guardare l’assenza
di onde, il lento morire d’inerzia;
il nuovo buio sul solito orizzonte.

lunedì 16 marzo 2009

Il TG della notte

Il segnale debole della mia antenna
mi rimanda immagini incomprensibili
fatte di quadratini che si rincorrono
in strisce multicolori che appaiono
per poi essere inghiottite velocemente
da altre di differente tonalità.
Uno screen saver isterico con pochi punti fissi.
La scritta TG1 in basso a destra.
Intuisco che bombardano Gaza, bello sforzo,
vedo qualcuno con le braccia alzate
verso un cielo blu occluso.
Le parole, i suoni, sono frammenti
singhiozzanti e sincopati che a intervalli
irregolari tentano di comunicare concetti,
corredare quelle immagini impazzite.
Il papa rivolge il suo sguardo benevolo
ai fedeli riunitisi in preghiera.
Un cartello con dei divieti.
La polizia arriva sul posto a tragedia consumata.
Le opinioni dei principali protagonisti.
Un campo di calcio, le azioni salienti.
Anche stanotte niente di nuovo.
Tra non molto la pubblicità.